Esco dalla stazione di High Street Kensington. Giro a sinistra e percorro High Street Kensington Road fino ad un incrocio dove i negozi finiscono e si apre il cancello di Holland Park. Giro ancora a sinistra e percorro Earls Court Road fino a trovare una stretta e anonima via sulla destra: Logan Place. La attraverso tutta, tra case monofamiliari e piccoli condomini interrotti sulla fine da un lungo muro che chiude una villa in stile edoardiano. La casa di Freddie Mercury.
Mi piazzo davanti al cancello verde, leggo la miriade di scritte con cui lo hanno devastato; chi si è risparmiato lo scempio del cancello ha scritto sul muro; chi dotato di buon senso ha invece preferito dedicare il suo pensiero sul marciapiede.
Mi piazzo sul lato opposto della strada e concludo il mio pellegrinaggio in religioso silenzio, con una canzone dei Queen in opzione Repeat sull’Ipod. Da lì si nota a malapena il terrazzo del primo piano, il resto coperto dall’alto muro e dagli alberi.

Ho iniziato ad ascoltare i Queen a 12 anni, quando nella mia vita Londra rappresentava solamente lo sfondo dell’improbabile amicizia tra Tim, John e Carol, ragazzi le cui vicende e dialoghi, nel libro d’inglese New Communication Task, dovevano servire a migliorare l’inglese di una classe di teppistelli e pensosi cervelli come me. Fu lì che familiarizzai con la tipica casa inglese, con le nonnine stile Miss Marple, con le cabine telefoniche rosse e i bobbies. Poi venne Freddie Mercury.
Iniziai ad ascoltarlo in sordina, costretto più che altro dalla passione di mia sorella e da uno stereo troppo potente. Mi appassionai, iniziai a rubarle le cassette, leggerne i testi, la biografia e Londra, in uno strano sillogismo, iniziò a elevarsi nella mia immaginazione di futuro globe-trotter:
IO AMO I QUEEN
I QUEEN VIVONO E COMPONGONO A LONDRA
ergo
IO AMO LONDRA

O meglio, immaginavo già che io AVREI amato Londra. In pochi sanno valutare il potere della musica, l’influenza insita nel benessere che ci dà l’ascolto, ma sopratutto nelle scelte di una vita. E anche quella dei libri. Prendiamola un pò larga, ma prendiamola così: se a 12 anni io non mi fossi appassionato della musica dei Queen e se contemporaneamente non avessi amato una geniale vecchietta di nome Agatha Christie, io ora non vivrei a Londra.

Vivo i miei minuti di fronte alla casa in profonda meditazione. Da 13 anni è abitata da Mary, l’ex ragazza di Freddie, prima che lui scoprisse la sua omosessualità, e poi sua migliore amica. Fino alla morte.
Dentro la casa c’è un pianoforte a coda. Probabilmente da quel pianoforte uscirono le prime note di “You and I”, la canzone che si ripete da venti minuti nelle mie orecchie. Non è nota, ma a mio umile parere è una delle cinque sue più belle canzoni (quand’è che si sottoporrà a serio dibattito il problema della selezione delle canzoni di un Greatest Hits e dello sfortunato destino in cui incorrono canzoni mai greatestizzate??).
Quando mi convinco che sì, a dieci metri da me, più o meno 25-30 anni fa, si consumava la creazione di quella melodia e di quei versi, l’estasi mi coglie. Il momento epifanico mi innalza al di sopra del filo spinato che incombe sul muro (filo spinato cazzuto, non cocci di bottiglia appiccicati col cemento, ma filo potenziato con la corrente elettrica), mi adagia sul giardino, mi accoglie nella casa e mi lascia intravedere Freddie seduto al piano, sigaretta in bocca, un foglio bianco davanti su cui scrive le note che pian piano elabora nella melodia della canzone che, lui lo sa già, intitolerà “You and I”. Si distrae per la mia presenza, mi studia con lo sguardo e capisce tutto, come sempre ha fatto:
“But I’ll always live for tomorrow
I’ll look back on myself and say I did it for love
Yes I did it for love – for love – oh I did it for love”***
“Thanks Freddie.”
“You’re welcome. Take Care.”

Finisce tutto in pochi istanti. Sono di nuovo sul marciapiedi, ma ora so meglio dove guardare, cosa dire, come vivere.

*** from “It’s a Hard Life”