“Non troverai nessuno, soprattutto un intellettuale, che voglia lasciare Londra. No, Sir, quando un uomo è stanco di Londra, è stanco della vita; a Londra c’è tutto ciò che questa vita possa offrire”.
Samuel Johnson, poeta critico e scrittore inglese 1709- 1784.

targetlondonSono passati poco più di duecento anni, ma l’idea che Johnson aveva di Londra, città dinamica e dalle mille opportunità, risulta oggi più che mai attuale. Non per nulla la metropoli inglese è meta ogni anno di una massiccia immigrazione di giovani, e per quanto riguarda noi italiani, sempre più spesso di meno giovani, che raggiungono la capitale britannica per mettersi in gioco e realizzare i propri sogni.
Ma il fatto che molti italiani scelgano di lasciare il proprio Paese per approdare nel Regno Unito, non costituisce una novità dei nostri tempi. Questo fenomeno migratorio ha infatti radici ben più antiche, che risalgono alla metà dell’Ottocento, anche se, già nei primi decenni del XIX secolo, diversi italiani, per questioni di tipo politico (la repressione dei diversi moti risorgimentali) o economico, avevano scelto il suolo britannico, ed in particolare Londra, come loro destinazione per vivere.

È difficile parlare di emigrazione degli italiani a Londra senza fare riferimento a quella che fu il fulcro della colonia italiana, ben consolidatasi a partire dagli anni quaranta del l’800: Little Italy, localizzata nell’area relativamente circoscritta di Clerkenwell e Holborn, a metà strada tra la City ed il West End, due punti fortemente strategici dove poter esercitare le proprie attività.

Il quartiere di Little Italy era caratterizzato da un enorme sovraffollamento e da pessime condizioni di vita, fattori questi che l’avevano resa uno dei quartieri più poveri e malfamati di Londra e che avevano, con l’andare del tempo, portato a forti reazioni nell’opinione pubblica e nelle autorità. Il Parlamento, infatti, istituì una commissione che approvò due leggi (datate rispettivamente 1885 e 1890) che affidavano maggiori poteri alle autorità locali per intraprendere l’azione di demolizione degli slums della Londra vittoriana. La conseguenza di quest’azione fu che il quartiere di Holborn venne pesantemente colpito e molti italiani furono costretti a spostarsi nei distretti limitrofi, tra cui quello di Westminster, dove si sviluppò velocemente l’area di Soho, come secondo quartiere italiano della capitale.


La statua che commemorava l’immigrazione
italiana a Bedford. La statua è stata
successivamente rimossa in seguito
ad alcuni atti vandalici.

La prima fase dell’emigrazione di italiani che raggiunsero la Little Italy, contrariamente a quello che è l’immaginario collettivo, non previde soltanto l’arrivo di gente povera, ma bensì quello di artigiani professionisti provenienti dall’Italia settentrionale, specializzata a seconda delle aree di origine e tutto sommato ben integrata nel tessuto sociale inglese.
Fu solo verso la fine del XIX secolo che il registro cambiò, con l’arrivo di numerosissimi italiani che svolgevano lavori girovaghi e stagionali (suonatori di strada, mosaicisti, gelatai…) e che si differenziavano anch’essi per il luogo di provenienza (erano lucchesi gli artigiani che vendevano statuette di gesso, friulani i camerieri, calabresi i gelatai ecc).

Questa “specializzazione da aree geografiche” era soprattutto dovuta al fenomeno dalla chain migration, che prevedeva che i “pionieri” chiamassero parenti e compaesani una volta consolidata la loro attività occupazionale sul suolo britannico.
Uno dei mestieri che assunse sempre più rilevanza fu quello del gelataio, tanto che il carretto colorato utilizzato dai gelatai ambulanti divenne il simbolo della Londra di fine Ottocento. I gelatai vivevano in maniera misera ma riuscivano ad accumulare introiti di tutto rispetto che permettevano loro di tornare in Italia durante l’inverno e nell’arco di poco tempo dettero vita a gelaterie vere e proprie, rivelando così quella che è una caratteristica dell’italianità, ossia la vocazione all’imprenditorialità, supportata dalla propensione al risparmio, quest’ultima del tutto sconosciuta agli inglesi.

Un altro dei lavori ambulanti molto diffuso tra i migranti italiani di epoca vittoriana fu quello dei suonatori di strada. A questo mestiere si legò il triste fenomeno del traffico di bambini, che venivano ceduti con regolare contratto dai genitori indigenti ad un “padrone” che doveva provvedere al loro sostentamento in cambio del loro utilizzo come suonatori ambulanti, di solito di organetto. Questi bambini arrivavano a Londra dopo un estenuante viaggio a piedi per lo più dalle zone a confine tra Emilia, Liguria e Toscana e quella a confine tra Lazio, Campania a Basilicata e spessissimo vivevano in regime di schiavitù. Il fenomeno dei bambini lavoratori con il tempo assunse dimensioni tali da richiedere l’intervento delle autorità sia britanniche che italiane, ma scomparve veramente solo nei primi anni del Novecento, e con esso tutti i mestieri girovaghi, lasciando spazio a lavori legati ad un settore che da quel momento in poi giocò un ruolo di primissimo piano: quello della ristorazione, sviluppatasi soprattutto nel quartiere di Soho.
Questa progressiva scomparsa di musicisti e girovaghi trovò conferma anche nei decenni successivi, periodo in cui si rafforzò ulteriormente il comparto del catering e dei servizi ad esso collegati, al punto che nel 1931 arrivò a coinvolgere ben il 20% degli italiani che lavoravano.

Ma una grave sciagura stava per abbattersi sulla comunità italiana e sull’armonia che la caratterizzava in questo periodo: il 10 giugno 1940 venne proclamata da parte di Benito Mussolini la dichiarazione di guerra contro la Francia e l’Inghilterra: gli italiani diventano nemici, enemy aliens. Gli effetti della dichiarazione sulla comunità italiana furono devastanti, in quanto si procedette all’arresto di tutti gli italiani di età compresa tra i 17 e i 70 anni ed al loro internamento sull’isola di Mann, in Australia e in Canada (con il tragico affondamento dell’Arandora Star nel luglio del 1940, nel quale morirono 476 italiani). A guerra finita a circa 1500 ex prigionieri fu permesso di rimanere in Inghilterra a contribuire alla ricostruzione del Paese e di richiamare le proprie famiglie. Nello stesso tempo vennero avviati “Piani di reclutamento collettivo”, concordati dal Governo britannico in accordo con quello italiano per fare fronte alla mancanza di manodopera nel Paese disposta a fare i lavori più umili e faticosi.

A questi accordi fece quindi seguito, dal 1946 al 1950 una nuova e massiccia ondata migratoria caratterizzata da due novità: l’arrivo prevalentemente dall’Italia meridionale di italiani privi di una qualifica professionale e piuttosto indigenti e la forte presenza di emigrate donne, impiegate maggiormente nelle industrie tessili e nel settore dei servizi inteso soprattutto come commercio e ristorazione. I maschi invece erano destinati a lavorare in particolare nella produzione di laterizi (è esemplare il caso della comunità italiana di Bedford, polo industriale nella produzione di mattoni), nell’agricoltura e nello smantellamento delle fortificazioni di difesa.

Negli anni Cinquanta del Novecento, periodo di grandi successi imprenditoriali specie nella ristorazione, la comunità italiana perse pian piano i propri legami identitari, sentendo sempre di più il bisogno di essere integrata nel tessuto sociale. Cambiò anche collocazione topografica: lasciando Clekenwell e Soho si spostò ad Islington, Finchley e altri quartieri di Londra.

Il periodo dei mitici anni Sessanta fu invece foriero di novità in ogni ambito, dalla moda alla musica all’arte in generale. L’austerità del dopoguerra fu solo un ricordo, trionfò il concetto di superfluo. E per gli italiani a Londra continuò il periodo florido della ristorazione per tutto il decennio, alla fine del quale l’emigrazione tradizionale però esaurì i suoi flussi.

A partire dagli anni Settanta, infatti, prese il via nel Regno Unito un nuovo tipo di emigrazione: quello di giovani che si recavano prevalentemente a Londra rapiti dal fascino che esercitava questa città, per imparare l’inglese o per studiare, e che trovavano un impiego in lavori precari a tempo determinato, in genere nella ristorazione. Questi ragazzi, una volta arrivati nella capitale, scontrandosi con una città individualista, competitiva e indifferente venivano spsso assaliti dalla solitudine e molti cadevano vittime della droga, affollando di conseguenza le carceri, i centri di recupero, le zone di spaccio. Questo periodo buio caratterizzò tutti gli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, complice anche la libertà di costumi e soprattutto la generosa politica di assistenza sociale inglese che attirava giovani tossicodipendenti dall’Italia oltre che da tutta l’Europa. In questi anni arrivarono a Londra anche i rampolli della classe dirigente finanziara italiana, con l’obiettivo di formarsi in un contesto di maggior respiro rispetto a quello “dinastico” italiano. Inizia così la migrazione verso la City, ma è ancora un fenomeno d’elìte.

Il ruolo di polo d’attrazione rappresentato dal centro finanziario londinese cominciò ad avere invece un peso decisivo negli anni Novanta, quando ormai si era consolidata la deregolamentazione del mondo della finanza e degli investimenti voluta dal Financial Service Act del 1986, tramite il quale tutte le banche del mondo, in primis quelle americane, poterono operare su Londra. Partì quindi verso la City un imponente flusso di giovani, spinti anche dalla possibilità di evitare con un anno di lavoro all’estero (poi trasformatisi in un periodo di 24 mesi) il servizio militare, così come prevedeva la legge di allora.


La City: la destinazione per molti italiani.

Con l’inizio del nuovo millennio e l’avvento di Internet, che trasformò anche la gestione delle attività finanziarie, arrivarono nello Square Mile migliaia di ragazzi giovanissimi, a volte non ancora in possesso della laurea, spinti, oltre che naturalmente dalla possibilità di guadagni elevati, dalla voglia di mettersi in gioco e con la consapevolezza di poterlo fare grazie a quel concetto il più delle volte sconosciuto in Italia che è la meritocrazia. E proprio l’opportunità di far valere le proprie capacità portò una folla di giovani altamente qualificati a cercare in Londra la realizzazione dei propri sogni non solo in campo finanziario, ma anche in quello della ricerca, della medicina e della cultura. Parallelamente giunsero nella capitale anche giovani privi di grandi qualifiche che trovarono maggiormente lavoro nel settore sempre più in espansione della ristorazione.

La crisi del 2008 e il tracollo della Lehman Brothers, simbolo della tumultuosa crescita finanziaria degli ultimi anni, hanno ridimensionato la richiesta di lavoratori nella City, ma assolutamente non il flusso di ragazzi e ragazze italiane tra i 21 e i 35 anni che, muniti di diploma o laurea, continuano ad approdare nella capitale britannica (aiutati anche dalla possibilità offerta dai voli low cost), cercando la propria occasione, nei più diversi ambiti lavorativi. Spesso affrontando difficoltà con invidiabile coraggio, consapevoli che nonostante la concorrenza spietata, se si lavora duro si viene premiati. È la nuova emigrazione, definita da taluni migrazione 2.0.

Gli italiani dunque si ritrovano a scrivere una nuova pagina della storia che li lega alla capitale britannica da più di duecento anni. Certo hanno motivazioni diverse dai connazionali che intrapresero la loro stessa avventura nei tempi passati, ma come loro inseguono con caparbietà il mito del “si può fare”, pagando il prezzo della lontananza dai propri affetti e per il Paese che hanno lasciato, Paese in cui non pochi sperano di poter tornare un giorno.

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